6.874 è il numero dei morti che la feroce repressione del regime siriano ha mietuto nel paese dal 26 gennaio 2011 (fonte Araaz), giorno in cui il vento di cambiamento “democratico” ha investito la Siria, al pari di Tunisia, Egitto e Libia. E le rivolte sono scoppiate con lo stesso gesto assurdo, ma forse ora più comprensibile, che in Tunisia: un uomo, Hasan Ali Akleh, si è cosparso di gasolio e dato fuoco per protestare contro il regime in Siria, un paese a maggioranza sunnita, ma governato da una stretta minoranza sciita.

Pochi giorni dopo, il 3 febbraio, attraverso il passaparola su Facebbok e Twitter, è stato indetto il “Giorno della rabbia” per il 5 dello stesso mese, ma le proteste sono fallite, non riuscendo a coinvolgere un numero “sufficiente” di cittadini. Poche centinaia di persone hanno marciato ad Al-Hasakah, ma le forze di sicurezza hanno facilmente disperso i manifestanti, una dozzina dei quali sono stati arrestati. Al-Jazeera, in quell’occasione, definì la Siria “il regno del silenzio”, ritenendo molto difficile la riuscita di qualsiasi forma di rivolta in questo paese vista la popolarità del presidente Bashar al-Assad e le preoccupazioni per le prospettive di rivolta a fronte di quello che stava avvenendo contestualmente in Tunisia ed Egitto.
Nello stesso giorno, il 5 febbraio, Internet e social network, come Fb e Twitter, hanno subito restrizioni e blocchi da parte del regime. A metà marzo il movimento ha iniziato a crescere e simultaneamente molte dimostrazioni hanno avuto luogo nelle principali città siriane. Daraa è divenuta il punto focale delle crescenti rivolte. Più di 100mila persone hanno marciato lungo le strade della città il 25 marzo laddove l’immediato intervento delle forze di polizia ha causato almeno 20 vittime. Questo non ha arrestato le crescenti insurrezioni negli stessi giorni che hanno coinvolto Homs, Hama, Baniyas, Jassem, Aleppo, Damasco e Latakia. 70 i morti certi. E mentre al-Assad annunciava il rilascio di 200 prigioneri politici e il governo di Muhammad Naji al-Otari presentava le proprie dimissioni, le rivolte si facevano sempre più violente e insistenti così come numerosi i morti: 10 il primo aprile, più di 30 l’8. Le proteste non hanno coinvolto solo città come Daraa, Baniyas, Al-Qamishli e Homs, ma anche interi quartieri della capitale, come Douma e Harasta. Gli scontri con le forze di sicurezza del regime hanno comportato la perdita di altre 88 vite, tra manifestanti e poliziotti. Iniziano a girare le prime voci e testimonianze di soldati uccisi dagli stessi compagni in armi perché si erano rifiutati di sparare sulla folla inerme.
Inutili le concessioni del presidente al-Assad, come l’abbandono della quarantennale “emergency law” o la promessa di una serie di riforme politiche, sociali ed economiche. A fine aprile si contano altri 60 morti tra i civili dissidenti. Gli Stati Uniti (finalmente?) condannano la repressione da parte del governo e sanciscono dure sanzioni contro il paese. La situazione peggiora ulteriormente con l’utilizzo da parte del regime di cecchini e carri armati nelle strade di Daraa e Homs, città private, tralaltro, di acqua ed elettricità. A maggio l’esercito riesce a sfondare le difese e ad entrare in molte città, provocando un numero imprecisato di vittime. Storie di massacri e torture si susseguono in Rete a un ritmo drammatico mentre il governo interviene con un rigido “giro di vite” anche sui social network: la connessione HTTPS a Faceboook risulta bloccata, impedendo quindi il login. È possibile accede a Youtube, ma impossibile vederne i video. Viene limitato il numero di connessioni a Twitter, rendendolo quindi inaccessibile. Il 30 giugno la città di Aleppo si solleva contro il regime di Assad, una battaglia ricordata come “Aleppo volcano”. A metà luglio, dopo delle violente manifestazioni pro-Assad e contro l’ambasciata statunitense e quella francese, il segretario di stato americano, Hillary Clinton non solo condanna questi due atti, ma sottolinea come il governo abbia oramai perso la propria legittimità. Nonostante ciò la repressione dei rivoltosi continua imperterrita così come l’uso dei carri armati e gli arresti indiscriminati. Solo il 31 luglio l’assedio della città di Hama provoca 136 vittime.

Agosto, settembre e ottobre lasciano sul campo di battagia centinaia di morti mentre crescono le file dei prigionieri politici, soggetti, tralatro, a vessazioni e torture di ogni tipo: mutilazioni, scosse elettriche e tondini di ferro caldo. 250 le vittime nei primi dieci giorni di novembre. Il 12 dello stesso mese la Lega Araba si sveglia dal coma e vota per la sospensione della Siria dall’organizzazione nel caso in cui Assad non fermi il massacro, invitando i partiti d’opposizione a partecipare ai colloqui “di pace” nel loro quartier generale al Cairo. L’11 dicembre l’Alto Commissaro per i Diritti Umani, Navi Pillay, aprendo una sessione speciale del Consiglio sulla situazione dei diritti dell’uomo in Siria, denuncia la morte di 307 bambini, 5000 vittime accertate dall’inizio delle proteste, 14mila prigionieri politici e 12mila rifugiati nei paesi confinanti, insistendo sulla necessità urgente per il regime siriano di rendere conto dei crimini contro l’umanità compiuti durante la repressione. Due giorni dopo la stessa Pillay conferma la possibilità di deferire la Siria alla Corte Penale Internazionale.
Il 15 la Russia, fino a quel momento così recalcitrante nel riconoscere la drammatica situazione nel paese arabo, propone una risoluzione per condannare la violenza “da tutte le parti, compreso l’uso sproporzionato della forza da parte delle autorità siriane”. Ma Assad sembra incredibilmente sordo agli appelli internazionali e il massacro continua indiscriminato: 100 morti solo il 19 dicembre, tra cui 20 di desertori delle forze armate. Lo stesso giorno, però, firma un accordo con la Lega Araba per consentire agli osservatori della stessa di entrare e monitorare la situazione nel paese. Fatto sta che il 23 dicembre, proprio mentre gli osservatori si apprestano ad iniziare la loro visita ufficiale, due attacchi suicidi colpiscono la Capitale, provocando 30 morti tra civili e forze di polizia. Il governo punta il dito contro Al-Qaeda, nemico omnipresente, capro espiatorio, causa necessaria e sufficiente per l’utilizzo di qualsiasi mezzo in difesa della sicurezza nazionale: Guantanamo docet.
Il 6 gennaio un altro attacco suicida colpisce Damasco: 26 i morti. Indovina a chi viene additata la colpa… Al-Qaeda ovviamente! Il governo siriano, in compenso ha promesso di rispondere con un “pugno di ferro” alla minaccia terroristica, un’intenzione ribadita dallo stesso presidente che il 10 gennaio ha deciso di parlare al popolo in diretta Tv, un evento a dir poco “straordinario” visto che non accadeva da giugno. Un monologo di un’ora e quaranta minuti in cui al-Assad ha lanciato accuse tanto all’occidente quanto alla Lega Araba, il primo colpevole di cospirare e destabilizzare il paese, il secondo reo di non averlo difeso e sostenuto. Si è detto pronto a dialogare con l’opposizione per attuare le riforme economiche e sociali necessarie, ma ponendo, come obiettivo primario, la lotta al terrorismo per ristabilire l’ordine interno. Sarebbe interessante chiedergli come quei 300 bambini uccisi dalle forze di polizia costituissero una minaccia terroristica per il paese.
2 replies on “Siria: cronologia di un massacro silenzioso”
[…] il “quieto vivere” della stampa italiana sulla Siria. Della serie, ci sono molti fatti più interessanti di cui trattare: vuoi la ridondante crisi […]
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[…] capacità di “fare rete” e di mettere in comunicazione i giovani tunisini, egiziani, siriani durante le proteste. Ma, vuoi o non vuoi, nulla al mondo è unicamente positivo, tutto ha […]
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