“We use Facebook to schedule the protests, Twitter to coordinate and YouTube to tell the world“. Queste le parole di un attivista egiziano all’alba della caduta di Mubarak, parole esemplificative del ruolo tanto fondamentale quanto innegabile dei social media in quella che è stata definita la “primavera dei popoli arabi“. Dalla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia alla recente fuga di Gheddafi in Libia, si è parlato più volte di “Rivoluzione 2.0” o “Twitter revolution”, ad esaltare proprio il ruolo giocato dai social network nelle rivolte popolari che hanno provocato la caduta o, comunque, stanno facendo traballare tanti regimi dittatoriali in paesi a maggioranza musulmana. Tanti, tra giornalisti e studiosi, si sono cimentati in complesse analisi di questo fenomeno che, ai miei occhi e nonostante le tante critiche piovute tanto da blogger musulmani quanto da professoroni di Stanford, appare meraviglioso.
Che non si possa parlare di una “Twitter revolution” penso si sia tutti d’accordo. Come spiega con estrema chiarezza Colin Delany in un articolo del 10 febbraio scorso sull’Huffpost Tech: “Social media tools didn’t CAUSE the revolution — it was a Tunisian Revolution, not a Twitter/Facebook/Wikileaks revolution — but they definitely seem to have speeded it up“. Le rivoluzioni (sociali e politiche) le fanno gli uomini; al centro di queste rivolte vi erano soprattutto giovani che rivendicavano libertà, diritti e una migliore condizione di vita. Ma è innegabile che Facebook, Twitter e Youtube siano stati utili strumenti di organizzazione, passaparola e informazione: “Again, social media didn’t cause the Tunisian Revolution, but they enabled it — without the ability of a small number of activists to pass along shocking news and imagery from the first wave of protests, they might have fizzled out as so many street demonstrations in so many countries have in the past. And without ways for people to organize themselves and dispel rumors before and after the president’s fall from power, the entire situation could have descended into chaos“.
Nonostante ciò, sono emerse da più parti analisi e studi particolarmente critici sull’utilità-uso dei social media in questi eventi di portata storica. Nell’articolo apparso sul The New Yorker “Small Change: Why the Revolution will not be Tweeted“, diventato in seguito ampia fonte di dibattito, Malcolm Gladwell analizza e confronta il movimento per i diritti civili degli anni ’60 in America con le recenti rivolte “guidate” dai social media. A suo dire, mentre il primo era una vera e propria militanza strategica e organizzata con precisione e disciplina, i social media, per carattere, struttura e, forse, anche per ragion d’essere e di nascita, non hanno alcuna organizzazione gerarchica al loro interno, le decisioni vengono prese per consenso e i rapporti che legano le persone al gruppo sono deboli. Questo porterebbe a maggiori conflitti ed errori. “La mancanza di un ordine e di una leadership come quella incarnata dalla chiesa nera e dal suo vertice indiscusso Martin Luther King non sono elementi di contorno, ma il fondamento del successo di una strategia di opposizione e rivendicazione“.
Non solo. Evgeny Morozov in “The Net Delusion” sostiene che l’impatto di Twitter o Facebook nelle rivolte dei paesi del Maghreb come in Iran sia stato enfatizzato dai media occidentali, focalizzati molto più sulle tecnologie di orgine occidentale che sulle attive proteste in strada, causa prima ed unica della caduta dei regimi dittatoriali, ora come sempre nella storia. D’altronde il numero degli iscritti a Twitter in Iran alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2009 era di 19.235, ossia lo 0,027% della popolazione. Questa considerazione può essere fatta anche per quanto riguarda Egitto, Tunisia e Libia, ricordando che stiamo parlando di paesi in via di sviluppo, a maggioranza contadina, con un livello di infrastrutture molto basso. Figurarsi l’accesso a Internet…
Come sostiene Tiziano Colombi, devono essere messi in evidenza due aspetti diversi, quindi: la tendenza a rappresentare il mondo attraverso il filtro di una sorta di “orientalismo tecnologico” e la poca attenzione riposta nelle possibili controindicazioni dei nuovi network sociali, soprattutto in contesti politici venati di autoritarismo. Anche perché, come sottolinea David Rieff, “se l’insurrezione tunisina ha avuto una causa scatenante, bisognerebbe cercarla in un gesto politico tutt’altro che virtuale” ossia “della decisione di Mohamed Bouazizi – un ambulante di Sidi Bouzid, una cittadina nella Tunisia centrale – di darsi fuoco per protestare contro la polizia che gli aveva sequestrato il carrettino e i prodotti che tentava di vendere“.
Tutto questo può essere vero, ma è altrettanto vero, come sostiene il noto blogger politico Andrew Sullivan, che “a new information technology could be improvised for this purpose so swiftly is a sign of the times. It reveals in Iran what the Obama campaign revealed in the United States. You cannot stop people any longer. You cannot control them any longer. They can bypass your established media; they can broadcast to one another; they can organize as never before“. Penso che sia questa concreta democrazia e partecipazione colletiva, propria della natura dei social media, a rappresentare la rivoluzione e la novità da esaltare nelle rivolte dei paesi musulmani. Soprattutto perché, come descrive magnificamente Bernardo Valli in un articolo di Repubblica, “il manifestante di piazza Tahrir al Cairo o di avenue Burghiba a Tunisi e l’oppositore al regime di Gheddafi che sacrifica la vita a Benghasi hanno sostituito l’immagine del terrorista barbuto e fanatico“. Protagonisti di queste rivoluzioni sono migliaia di giovani che, a dispetto dei nostri stereotipi e delle nostre paure, condividono le nostre stesse aspirazioni: libertà, diritti e una vita dignitosa. Una condivisione tanto reale e concreta quanto virtuale.
2 replies on “La primavera dei popoli arabi e il ruolo dei social media”
[…] In effetti, basta pensare al contributo dei blogger nella diffusione di informazioni durante la primavera araba, al boom delle iniziative di e-participation e crowdsourcing per comprendere quanto complesso, […]
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[…] regime siriano ha mietuto nel paese dal 26 gennaio 2011 (fonte Araaz), giorno in cui il vento di cambiamento “democratico” ha investito la Siria, al pari di Tunisia, Egitto e Libia. E le rivolte sono scoppiate con lo […]
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